Il Prof. Massimo Palermo, ordinario di linguistica all’Università per Stranieri di Siena, accademico della Crusca ed autore di diversi saggi è intervenuto al Festival della Lingua Italiana Treccani con una lectio magistralis tenutasi a Lecce domenica 7 maggio u.s.
Il tema della lezione, di cui riportiamo una breve sintesi, è stato “Le tante lingue del web. Parola scritta, parola detta, e altri linguaggi nell’infosfera.” La lingua di Internet dev’essere necessariamente declinata al plurale, secondo il Prof. Palermo, perché è impossibile individuare una sola lingua del web, essendo la rete un immenso contenitore in cui troviamo almeno tre lingue.
Nel web troviamo tutti i registri dell’italiano, da quelli più formali, nei siti istituzionali, ai linguaggi speciali dell’italiano (giuridico, economico, delle scienze…) fino ai registri linguistici bassi, soprattutto nel cosiddetto Internet interattivo (social media e piattaforme di comunicazione semi-sincrona come WhatsApp e simili), dove le modalità di comunicazione sono più orientate verso una trascuratezza generale della lingua con minore attenzione alla forma.
Il secondo motivo per cui occorre parlare di pluralità di lingue di Internet è dato dal fatto che il Web ha permesso ad alcune lingue di minoranza, le cosiddette lingue deboli, di acquisire visibilità, di essere lette ed ascoltate ed avere maggiori possibilità di conservazione. Ciò a differenza di quanto si è comunemente portati a pensare, cioè che la rivoluzione digitale abbia portato alla diffusione di una lingua a scapito di tutte le altre (ad esempio l’inglese).
Terzo motivo per cui è opportuno parlare al plurale delle lingue di Internet è che in Internet convivono tanti linguaggi. Insieme alla lingua storico-naturale, nella sua versione parlata e in quella scritta, ci sono anche altre forme di comunicazione semiotica: il linguaggio sonoro e quello filmico ad esempio.
L’essenza stessa degli ipertesti, pur nella loro enorme varietà, è la compresenza difficilmente eliminabile, di più codici semiotici. Non si tratta di una novità assoluta perché quando si parla di multimedialità e multimodalità occorre anche considerare che quando parliamo non comunichiamo solo attraverso le parole ma anche attraverso il nostro corpo. Con la diffusione della rete c’è stata una sicuramente una intensificazione di quella che possiamo chiamare “densità multimodale” dei testi.
Walter J. Ong, gesuita e linguista statunitense, maestro del più noto Marshall McLuhan (autore del testo “Il villaggio globale. XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media” – ndr), nell’opera di evangelizzazione si è confrontato con lingue caratterizzate da una “oralità esclusiva” o “oralità primaria” che cioè non avevano conosciuto la cultura scritta. L’oralità primaria è diventata secondaria, quando è stata affiancata dalla possibilità di contatto con una lingua che rimane su un supporto scritto (Suggeriamo a tale proposito la lettura del saggio “Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola” di Walter J. Ong – ndr).
Secondo Walter Ong quindi il passaggio da una oralità primaria ad una oralità secondaria ha implicato un cambiamento molto importante di quello che lui chiamava il sensorio, un mutamento cioè della gerarchia sensoriale: dall’orecchio all’occhio. La lingua rappresentata su un qualsiasi supporto permanente non implica più una predominanza della percezione uditiva, come per la lingua parlata. La gerarchia dei sensi si ribalta a favore della percezione visiva, del guardare il testo, piuttosto che ascoltarlo.
Lo sviluppo del linguaggio orale potrebbe essere iniziato 200-250 mila anni fa e quindi ha una storia molto significativa; il passaggio alle forme di lingua scritta ha una storia invece molto più breve che, estendendo molto, possiamo arrivare fino a 5-6 mila anni.
Questo slittamento dall’orecchio all’occhio è diventato sempre più preponderante con quella che è stata chiamata la rivoluzione analogica, con lo sviluppo dei grandi mezzi di comunicazione di massa, e poi con la rivoluzione digitale. Siamo cioè sempre più abituati a fruire dei testi attraverso il canale visivo piuttosto che quello uditivo.
Brainframe, multimodalità, infosfera, algoretica
Analizziamo quattro parole chiave che possono aiutarci ad affrontare alcuni temi legati alle lingue del web, alle funzioni della lingua e relative evoluzioni, nonché costituire una guida alla comprensione di alcune innovazioni.
La prima parola chiave è brainframe o schema mentale. La plurimillenaria delle modalità di comunicazione ha visto il susseguirsi di diversi schemi mentali nella trasmissione dell’informazione, attraverso i quali svolge la sua funzione la lingua, che hanno comportato una rimodulazione progressiva del rapporto fra orecchio, occhio e cervello.
Secondo gli psicologi (più che i linguisti) cognitivisti, in questa evoluzione si è avuto un primo brainframe di tipo alfabetico, con l’abitudine a vedere dei testi scritti su un supporto permanente, che ha avuto delle conseguenze sullo sviluppo del nostro modo di interagire con l’informazione. È stato il trionfo e lo sviluppo dell’intelligenza analitica, sequenziale. Ci siamo abituati a vedere le informazioni “messe in fila”, su un supporto permanente, quindi con un rapporto con l’oggetto che si dice autodiretto, cioè la possibilità di leggere, rileggere, soffermarsi, tornare indietro, cosa che non si può fare con una oralità non tecnologica.
Da questo primo brainframe, con uno schiacciamento temporale, si è passati ad un secondo brainframe di tipo televisivo non più caratterizzato dalle capacità analitiche e sequenziali, ma da quelle olistiche, globali, accompagnate però da una minore capacità di concentrazione. Questo è il motivo per cui in televisione facciamo fatica a seguire un discorso che sia troppo. L’eccesso opposto è per esempio la durata media di un’intervista ad un personaggio politico che dura fra gli 8 e i 10 secondi; magari ce la faremmo anche a seguire una dichiarazione di 30 secondi o 1 minuto. Alla base di questa degenerazione c’è una minore capacità di concentrazione, dovuta al mezzo.
Terzo brainframe di tipo cibernetico è quello della rivoluzione digitale, che si sovrappone a quello che è accaduto nella seconda metà del 900, con la rivoluzione analogica, potenziandone ulteriormente gli effetti e sviluppando nuove modalità di interazione con l’informazione. Una delle caratteristiche principali in questo caso è la frammentarietà, con capacità di concentrazione ulteriormente ridotta. Questo elemento gioca a favore di chi scrive i saggi sul fatto che Internet può rendere stupidi.
Vi sono però anche alcuni aspetti positivi, cioè ad esempio la possibilità di sviluppare forme ci conoscenza e di elaborazione delle informazioni condivise grazie proprio allo strumento della rete.
La seconda parola chiave è multimodalità. Consiste nel fatto che quando acquisiamo informazioni dalla rete abbiamo a che fare inestricabilmente con una commistione di codici, non soltanto quella più semplice (tono di voce, espressioni facciali), ma il fatto che qualunque ipertesto è per sua natura costruito su più canali comunicativi (sonoro, visivo, la parola detta che si accompagna a quella scritta, ulteriore evoluzione della civiltà tipografica). La multimodalità, sempre esistita, è diventata esasperata.
La terza parola chiave è infosfera. In questo caso la parola ha anche un onomaturgo che l’ha recentemente coniata, il filosofo italiano Luciano Floridi, ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford. Nel 2014 Floridi scrive un libro dal titolo “La quarta rivoluzione: come l’infosfera sta trasformando il mondo”, in cui si occupa delle conseguenze del digitale sul nostro modo di interpretare il mondo e conia questo termine con una crasi sul modello di atmosfera.
Una grande evoluzione della rete è stata nel momento del passaggio da una connessione da postazione fissa a alla connessione in mobilità. Da circa 15 anni portiamo sempre con noi uno strumento di connessione che è diventato quasi un’appendice del nostro corpo e tra qualche anno potremmo tranquillamente eliminare il “quasi”.
Questa trasformazione fa vivere le informazioni in una sorta di bolla ubiqua in cui non solo coesistono e circondano la terra, come una sorta di seconda atmosfera, ma interagiscono fra loro. E basta un link per connettere due punti qualsiasi di questa infosfera.
La seconda espressione per cui Luciano Floridi è diventato famoso è “onlife“, che esprime il concetto di una società talmente iperconnessa che le attività virtuali vengono percepite come indistinte dalla vita offline.
L’ultima parola chiave è algoretica. Siamo in una società sempre più dominata dagli algoritmi e questo comporta sempre più problemi etici. Lo sviluppo del digitale ha comportato dapprima un dialogo tra uomo e macchine e poi ad un dialogo delle macchine tra loro. Questo concetto è racchiuso in un’espressione che comincia a diventare obsoleta: internet of things, l’internet delle cose. Pensate alle conseguenze etiche di tutto ciò, dalle auto a guida autonoma all’intelligenza artificiale.
Questa evoluzione influenza i linguaggi della rete generando nuove possibilità e nuovi codici semiotici, vediamo qualche esempio pratico. Ma c’è anche l’evoluzione dei supporti di scrittura e la loro funzione. Da quando abbiamo supporti permanenti per la lingua una fetta più o meno consistente della popolazione è abituata a leggere testi. Partiamo dal rotolo o volumen. Chiamiamo ancora “volume” un libro, perché questa parola deriva proprio dal formato originario del testo-rotolo, rimandando al verbo latino “volvere”, arrotolare.
La storia dei supporti della lingua scritta è un altro modo per capire alcune novità del web. La struttura a rotolo ad esempio, che prevedeva uno srotolamento, ci fa venire in mente lo scrolling che facciamo oggi sfogliando un sito Internet. Concettualmente è un’operazione simile a quella che faceva il lettore del rotolo e diversa da quella che abbiamo fatto per secoli leggendo i libri. Srotolando un volume occorre usare tutte e due le mani quindi non si possono glossare i testi, il libro, nella forma in cui lo conosciamo oggi “libera una mano” e consente un altro tipo di fruizione con la possibilità di prendere appunti che con lo scroll viene nuovamente limitata.
Convivenza tra lingua storico-naturale ed altri codici semiotici negli ipertesti
Uno di questi codici è il famoso hashtag, il cancelletto, che tecnicamente costituisce un “marcatore di superficie” cioè denota un contenuto in modo visibile. Qualsiasi ipertesto è poi dotato di altro tipo di marcatori “di profondità” che si chiamano così perché non sono visibili all’utente finale.
I marcatori di profondità richiedono un minimo di competenze informatiche; quelli di superficie possono essere inseriti anche da utenti non specialisti, per taggare qualcuno ad esempio. Questo tipo di marcatura non era possibile nei primi ipertesti ed è tipica dell’Internet interattivo, costituendo uno sviluppo.
Perché è così importante questo cancelletto. Apparentemente è solo un segno in più scelto, per stessa ammissione di chi lo ha inventato, perché poco usato per fare altre cose e quindi con poche possibilità di confonderlo. Usando il cancelletto mescoliamo un simbolo con la lingua storico-naturale. Come se usassimo dei simboli matematici che, pur trovandosi sulle tastiere, sono simboli non alfabetici ma di una formalizzazione diversa, di un altro linguaggio, quello algebrico.
L’hashtag diffondendosi ha sviluppato altre funzioni comunicative, diverse dall’indicazione di un contenuto chiave di un messaggio. Per esempio una funzione performativa, lanciare uno slogan o una campagna di mobilitazione. L’hashtag ha avuto una tale fortuna che viene utilizzato anche al di fuori del web, nei manifesti pubblicitari, dove non ha alcuna funzione essendo fuori dall’infosfera. Addirittura viene anche mimato, come accade anche per il gesto delle virgolette, incrociando indice e medio delle due mani. Questo è un esempio di interazione tra codici semiotici diversi.
Un secondo esempio invece è l’uso di emoji. Se la comunicazione orale, faccia a faccia, si nutre anche della comunicazione corporea (intonazione della voce ma anche mimica facciale), nella simulazione di comunicazione orale che abbiamo attraverso le piattaforme di comunicazione (comunichiamo come se stessimo parlando ma in realtà stiamo scrivendo) perdendo la corporeità l’uso di emoji tende a surrogare la comunicazione corporea attraverso l’uso di faccine e altri simboli.
Si possono usare emoji per sostituire l’enunciato verbale, ad esempio quando si risponde ai messaggi utilizzando soltanto emoji che sostituiscono completamente un enunciato verbale.
Più spesso hanno una funzione metadiscorsiva, cioè rappresentano l’atteggiamento di chi scrive (sarcasmo insofferenza). Nella conversazione scritta infatti è molto più facile il fraintendimento proprio perché non esiste il tono di voce.
Terza e ultima funzione è un uso ludico di queste icone, quando vengono usate dentro l’enunciato, senza integrarlo metadiscorsivamente, ma sostituendo singoli costituenti verbali ed assumendo una funzione simile a quella dei pittogrammi. Una integrazione della lingua verbale e della lingua iconica, ad esempio in messaggi in cui invece di usare una parola la sostituisco con l’uso di emoji.